Due parole sul bosone

In realtà Higgs, il Modello standard e la “particella dio” non c’entrano un cazzo. Solo che ho sempre sognato usare la parola bosone da qualche parte. E così.
Mia nonna mi ha chiesto perché mi fossi tatuato Auf Wiedersehen su un avambraccio. Io le ho risposto che era stato un modo come un altro per chiudere con una fidanzata di Friburgo. Mia nonna non ha ritenuto fare altre domande.

A dire il vero il tatuaggio recita Aufgehoben. Che è il nome di un gruppo, misconosciuto per quanto eccezionale. Ed è di loro che volevo parlare, oltre che del bosone, e del loro sesto strepitoso album, “Fragments of the marble plan”, uscito nel 2012 su Holy Mountain. Arrivo tardi, vero. Però. Premesso che amo questa band più del mio cane, occorre anche dire subito che trattasi di formazione dal suono radicale, duro in senso quasi fisico e senza compromessi che sarebbe meglio nessuno ascoltasse mai. Per cominciare, una citazione, quella del giornalista inglese Peter Marsh, il quale afferma che «se sapete cos’ha fatto Francis Bacon al ritratto di Innocenzo X di Velazquez, allora avrete un indizio su ciò che gli Aufgehoben stanno facendo alla musica rock». Comunque, gli Aufgehoben esistono dal 1999 ma non hanno mai fatto nulla per rendersi minimamente visibili, niente promozione, davvero pochi concerti (credo tipo sei in tutto, di cui solo uno fuori dall’Inghilterra). Sono di Brighton e si chiamano Stephen Robinson (batteria, processing), Phil Goodland (batteria) e David Panos (elettronica). Col secondo album (“Magnetic Mountain”, del 2001) si aggrega anche il chitarrista Gary Smith – veterano della scena improvvisativa inglese – e col terzo, “Anno fauve”, da Aufgehoben No Process che erano diventano semplicemente Aufeghoben (parola tedesca che significa “superato”, utilizzata anche da Hegel quando affermava che la sintesi “superava” tesi e antitesi). Li hanno paragonati a Skullflower, God, Swans, Merzbow, Lightning Bolt, ma non mi sembra che alcuno di questi nomi faccia al caso nostro (io piuttosto tirerei in ballo Boredoms, This Heat, o dei Supersilent sotto anfetamina…). Il loro cattivissimo power noise rock è ostile come delle bestie feroci meccaniche ingabbiate a forza tramite livelli di distorsione, percussioni pietrose e un ampio spettro di sovratoni prodotti dalle corde della chitarra graffiate e scorticate. Perché tutto ciò dovrebbe piacere a qualcuno? Non lo so, eppure il fascino di questa musica scientificamente e geometricamente rabbiosa ha un che di patologico. E comunque, si tratta anche di un suono che, pur decisamente ostico, sotto la scorza grezza si rivela ascolto dopo ascolto molto finemente modulato e mai fine a se stesso, evolvendosi peraltro fortemente nel corso degli anni. Dimostrazione ne è appunto l’album “Fragments eccetera”. Se, per dirne uno, “Anno Fauve” sembrava aver allentato leggermente la morsa corrosiva della band, questo album la ricompatta. Percussivo e anarchico, “Fragments eccetera” si libera di qualsivoglia schema e forma rock per farne un’ascia bipenne con cui sfrondare i nostri nervi. “Carta, pietra, elettronica, due batterie, una chitarra mono, nessun basso, nessun overdub, nessun nessun nessun processo” – oltre all’usuale avvertenza che “ancora una volta gli Aufgehoben non accettano responsabilità per danni alla salute o all’impianto stereo” – è tutto quello che, più o meno uguale nel tempo, abbiamo trovato nelle note di copertina dei primi cinque dischi. Ora queste avvertenze spariscono (a parte l’avvertenza sui possibili danni alla salute – e veniamo informati che l’album (acquistabile solo sul sito del gruppo) è stato prodotto dagli Aufgehoben insieme alla Commissione per la pubblica sicurezza.

Incantati disincantati

Questo blog si apre parlando di teatro.

Con la recensione di “Incantati”, del Teatro delle Albe”, per l’esattezza.

Il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi formalizzò il suo ingresso in politica – la cosiddetta “discesa in campo” – tramite un messaggio televisivo a reti unificate. Più o meno tre mesi dopo, l’8 aprile, al teatro Rasi debuttava “Incantati”, testo di Marco Martinelli destinato l’anno successivo a vincere il premio “Drammaturgia In/finita”. L’inventore di Forza Italia aveva appena iniziato a trasformare il calcio in un baraccone al servizio della televisione e a promettere a destra e a manca milioni di posti di lavoro, che già le Albe portavano in scena una storia d’incanto infranto, di bassezze arrivistiche, di tornaconti personali, di sport depredato dei suoi aspetti più puri. In “Incantati” – che ora ritroviamo, paradossalmente ancora più attuale e in forma di lettura scenica, di nuovo al Rasi – c’era già tutto. E c’era quasi per osmosi ambientale, come se il testo, che voleva rendere omaggio alla bellezza e alla poesia del calcio delle serie minori e dei campetti di periferia (non per nulla Martinelli lo dedicò al Pasolini calciatore, «che amava i campetti poveri e fangosi») non potesse che trasformarsi in una dolente elegia sulla corruzione sempre più evidente non solo dei valori di riferimento, ma anche dell’infanzia, della bellezza del gioco fine a se stesso. La “parabola dei fratelli calciatori” racconta in undici quadri con l’ineluttabilità di una tragedia come la vicenda del bambino prodigio Luca diventi per i tre fratelli Primo (Luigi Dadina), Stefano (Alessandro Argnani) e Palma (un’ispiratissima Michela Marangoni, nel ruolo che fu di Ermanna Montanari), che lo hanno tra i pulcini della propria squadra, e per la madre (Laura Redaelli), una questione di denaro, di fama, di calcolo, di bugie, lontanissima da qualsivoglia lirismo dei campetti periferici e dell’incanto di un bambino che gioca a pallone. «È un mondo non più incantato – dice Martinelli –, ma messo all’incanto: in vendita». In mezzo, i quadri onirici con i sogni di Stefano, il più sensibile, turbato e puro dei tre fratelli, guarda caso avviato alla follia. Come nei coevi “I refrattari” e “Bonifica”, Martinelli e le Albe danno vita in “Incantati” ad alcune delle loro più riuscite tragicomiche maschere della Bassa Romagna, quale sarà poi quel Pantani della scorsa stagione, che a “Incantati” deve tantissimo, anche lui a ricordarci senza scampo, malinconicamente e con “disincanto” che tutto ciò che non ci piace di questa Italia è sempre lì, dopo vent’anni, immobile e immodificabile.